sabato 15 maggio 2010

MILANO A. BRANDELLI, di Andrea Ferrari, Eclisse edizioni


A. Brandelli, il personaggio creato dalla penna del bravo e giovane Andrea Ferrari, appartiene alla famiglia di investigatori dell'ispettore Ferraro di Biondillo e del Coliandro di Lucarelli.

La differenza è che Brandelli non è un poliziotto (e allora via al paragone con il Gorilla di Sandrone Dazieri), ma un figlio qualunque della classica Milano grigia e nebbiosa (entrambi gli aggettivi, per il sottoscritto, hanno un'accezione positiva, sebbene da anni non ci sia più la nebbia di una volta). E dopo la laurea, anzichè fare il bamboccione chez mamma e papà fino ai trent'anni e ammazzarsi di happy hour in Corso Como, o piuttosto che morire in un call-center, il nostro ha la bella idea di inventarsi investigatore privato.

Ma non pensate al tipico, cupo detective newyorkese con il cappello calato sugli occhi, il soprabito zuppo d'acqua e una sigaretta alla Jiggen che pende sghemba tra le labbra, proprio no. In questo romanzo non ci sono gli sbirri marci dentro e fuori di cui canta David Peace in Millenovecento83. In Milano A. Brandelli non si incontra un altro testardo Scialoja sulle tracce del Libano e del Freddo. Non è questo il posto per morti, sparatorie, indizi nascosti in fondo alla gola di cadaveri mummificati nei boschi: il giovane Brandelli è, come si direbbe all'ombra della madonnina, un pirla qualunque. Ovvero, un personaggio ben tratteggiato che non necessita di stereotipi per vivere di viva propria. E quando a un buon personaggio si accompagna una buona storia, quasi disarmante nella propria semplicità e nel levitare senza fretta o trovate artificiose, tassello dopo tassello, pagina dopo pagina, anche se a volte, come è giusto che sia, trattandosi di un freelance alle primissime armi che indaga su un caso fumoso di spionaggio industriale, non tutti i tasselli si rivelano utili alla composizione del mosaico finale.

E a proposito di finale: si tratta di una delle chiusure più spiazzanti e soddisfacenti che mi sia mai gustato.

Per tutti quelli che, come me, avrebbero desiderato che l'ultima pagina fosse sempre almeno la penultima o terzultima, la lieta novella è che ritroveremo il nostro amico in Bravo Brandelli e Milano muta, sempre editi dalla benemerita Eclissi.

Ma sin da questo fuliminante esordio la scrittura di Ferrari si mostra scorrevole, una scrittura che vuole e che sa strappare più di un sorriso, e quando serve sono anche sorrisi amari. Una scrittura che fa di Milano, con i suoi difetti e i suoi luoghi comuni, la vera protagonista di questa storia. Dalla poesia di quartieri popolari e poco conosciuti ai più come la Martesana, all'incubo ricorrente del traffico in circonvallazione, sono diversi e variegati gli elementi di questa città che prendono vita nelle parole e nei pensieri di Brandelli e del suo alter ego nel mondo reale. Di solito le cose forti si amano o si odiano. Milano no, la si deve contemporaneamente amare e detestare. Soprattutto se ci vivi.

Diverse e ben sviluppate le sottotrame, che danno ancora più spessore alla vicenda e addirittura camuffano questo noir urbano in romanzo di formazione, tanto che si finisce con il legarsi alle vicende extralavorative del protagonista quasi più che non all'indagine in corso.

Da leggersi in tram, magari il 9 o il 29, in una giornata piovosa di ottobre:
così potreste transitare davanti ai Bastioni di Porta Venezia, dove i Baustelle hanno girato il video di Un romantico a Milano (dall'album La malavita): "Mamma, che ne dici di un romantico a Milano? Tra i Manzoni preferisco quello vero... Piero"

Ben fatto, Brandelli.

mercoledì 12 maggio 2010

DARKEST DAYS - I GIORNI DELLA FINE, di Stanley Gallon, Urania Mondadori


Questo libro è troppo alto (ahinoi) nel caso avessimo un tavolino traballante, e nel contempo troppo leggero (ahinoi) per essere lanciato contro un leader politico che proprio non possiamo vedere, nel caso ce lo trovassimo davanti.

Meglio così, certe cose non si fanno.
Sono cose brutte.

Ma certi politicanti in questo libro fan di peggio.

Questo libro: se avete un figlio potreste darglielo da colorare, anche se di solito i piccoli preferiscono per i loro album dei formati assai superiori agli albetti Urania.

A proposito di bimbi: crescere un bimbo ti fa tornare bambino.

Certo, dopo che diventi genitore, non ricominci a fartela addosso e a parlare facendo versi (“per quello, ahimè, occorre diventare almeno nonni” dice una ficcante battuta letta da qualche parte, talmente orribile da non poterla dimenticare). Questo no.

Eppure qualcosa accade.

Sì, perché quando hai finito la terza media, se non sei proprio un tamarro di quelli raccontati in certe canzoni tipo Loris & Efrem dei Vallanzaska (oppure uno degli improbabili militari in carriera o politici yankee raccontati in questo romanzetto), non ti verrebbe mai in mente di andare a scatenare risse, anche solo verbali, ai giardinetti pubblici (o assassinare il tuo Presidente; ammucchiare cadaveri alla cazzo di cane in Campidoglio, come se un qualunque Jason di Venerdi 13 si trovasse a dover gestire una purga Staliniana; sovvertire la Costituzione; scatenare guerre atomiche in Sudan al solo scopo di dare modo al tenente Adam Burch di cavarsela uscendo indenne da sotto un fungo nucelare, tornando poi in America in autostop, e fa niente se c'è l'Atlantico di mezzo).

No, non ti verrebbe mai in mente di impegnarti in uno scontro ai giardinetti, a meno che tu non sia lì con la tua bimba di due anni e mezzo che non vede l'ora di andare sullo 'scillo' (trad. 'lo scivolo'), e una volta sul posto scopri che un gruppetto di bimbiminkia l'ha eletto a base strategica. Quindi: mozziconi, lattine sulla pedana, grumi di catarro che colano mollemente lungo la discesa dove speravi potessero transitare beate le terga della tua amata prole.

Ma il potere della parola ha sempre la meglio sull'istinto di distruzione. Soprattutto se è una parola idiota, e come si auspicava nel sessantotto si seppellisce il potere con una risata. Succede così in questo romanzo, anche se fare ridere non era probabilmente lo scopo principe dell'opera.

Domanda:

Ragazzino, si può sapere perché sputi sullo scivolo?

Risposta:

Perché ho l'apparecchio ai denti...

E subito dopo, SKRUAAAGH, giù un'altra, candida, beata scatarrata.

Per oggi niente scivolo, amore.

E via, a zonzo per il parco, in cerca di un chiosco che venda gelati. Sperando magari che anche il gelataio non abbia l'apparecchio ai denti, vedi mai che anche lui...

Di sicuro non saremo al parco Yellowstone, quello dell'orso Yoghi: all'inizio del romanzo è stato devastato da una catastrofica esplosione vulcanica, che poi scopriremo essere parte del complotto. E madre natura, quella bastarda, non risparmierà al povero Adam Burch nemmeno un attacco di lupi, ma vabbè.

Tornando alle cose serie, ossia al giretto con la bimba orfana dello scivolo scatarrato, ci si potrebbe sedere su una panchina, e magari mettersi a leggere qualcosa.

La cosa importante è che non sarà più questo libro, che altre parole non merita, e che se ne è meritate ben poche anche prima.

E l'aver perlopiù parlato d'altro, qui in sede di recensione, va considerato un gesto di pietà. Quella che l'autore non ha avuto per i lettori.

lunedì 10 maggio 2010

IL CORPO ODIATO, di Nicola Lecca, Mondadori



Nicola Lecca è un giovane (classe 1976) scrittore cagliaritano, finalista al Premio Strega con il lavoro d'esordio Concerti senza orchestra, e che ha proseguito il proprio percorso artistico inanellando una serie ammirevole di pubblicazioni, riconoscimenti ed esperienze personali, tra cui decine di viaggi e soggiorni in svariati angoli d'Europa: da Reykjavík, dove ha ambientato alcune delle più belle cose da lui scritte, a Parigi, dove ha fatto lo stesso con questo intenso romanzo, Il corpo odiato, presentandoci le pagine di diario del diciannovenne Gabriele, in fuga dal vuoto della provincia italiana.

"Bisognerebbe sempre scrivere in giornate come queste. È comunque un esercizio.
Le parole scritte fanno più paura: vengono fuori, e nel prendere forma diventano definitive".


Parole che leggeremo da marzo, quando il diario comincia con le righe appena citate, fino a marzo, quando il diario (e non solo) finisce.
Undici capitoli capitoli per dodici mesi. Undici tasselli di un mosaico che il lettore riesce a compendere solo a tratti nella sua interezza - e mai come in questo caso si ha l'impressione che il dettagliato risvolto di copertina sia parte integrante dell'opera, soprattutto per quanto riguarda i chiarimenti relativi a come gli eventi si sono messi in moto. Ecco quella che è forse la sola colpa imputabile a questo romanzo: non rappresentare l'incipit di un'opera dal respiro più ampio.

Un'opera immaginaria che avrei davvero letto molto ma molto volentieri, e invece mi sono dovuto accontentare di bissare in pochi mesi la lettura di questo libro. Normale quindi che per raccontarlo si incontrino le stesse difficoltà cui si faceva cenno nell'articolo su Six Shots, un paio di post addietro: trovare belle parole è più difficile che trovarne di brutte.

Per fortuna qui non c'è bisogno di brutte parole .

Anche perchè l'autore ha saputo trattare temi delicati come anoressia, omosessualità, abusi, eccessi, accettazione e non accettazione di sè senza ricorrere a un linguaggio dirty, ma muovendosi sempre nei territori di un linguaggio alto che, pur nella sua profondità, non tiene mai a distanza il lettore, anche il più distratto, e non finisce mai con l'autocompiacersi.

La scrittura di Lecca prende le emozioni e le sbatte in faccia, senza impachettarle e profumarle nè graffiarle più del dovuto, dando loro la forza della chiarezza e non di una violenza pulp che troppo spesso, quando la si incontra, puzza di ostentazione fine a se stessa.
E parla uno che il pulp lo adora.

Però Lansdale e Bukowsky non vanno cercati qui, sebbene non manchino amplessi sudati e dolorosi, rubati e consumati in qualche angolo buio di localacci inadatti ai palati fini.

Nel corpo odiato le assonanze che vengono in mente sono duetti di sax con le malinconiche note jazz di un lavoro come Camere separate di Piervittorio Tondelli, forse la più bella storia d'amore scritta nella nostra letteratura, magari in compagnia di Un amore di Dino Buzzati, e poco importa se ad amarsi siano persone omo o etero.
La differenza con i romanzi di cui sopra è che Lecca non sembra voler raccontare la complessità dell'amore verso un'altra persona, ma la complessità del disamore verso se stessi.

Scavare per cercare la verità può fare male, soprattutto se ci riguarda da vicino.
Credo non per caso, il libro è dedicato a Fabrizio De Andrè, "che della verità non aveva paura". E il tormentato Gabriele, alla fine del suo lungo viaggio al termine della notte tra avenue de la Montagne e place da la Bastille, sembra avere intuito il senso della lezione: "Se è vero che le parole possono curare" ci confessa in una delle ultime pagine del suo diario "io sono stato guarito da loro".

venerdì 7 maggio 2010

LA CASA BUIA, di Dennis Lehane, Piemme


Il romanzo di Lehane che in questi mesi va per la maggiore è probabilmente L'isola della paura, grazie alla trasposizione cinematografica targata Scorsese feat. Di Caprio, Shutter Island.
Ho apprezzato a dismisura la precedente fatica del duo appena citato, ossia The departed (impreziosito e non è poco, da Sua santità Jack Nicholson e da un buon Matt Damon). Il film condivide l'ambientazione, ossia la città di Boston, con quest'altro bel romanzo di Lehane.

La casa buia. Copio dalla quarta di copertina: "A Boston, ormai, tutti sanno chi è Amanda McCready, 4 anni, rapita dalla sua camera una sera d'autunno. Quando, dietro richiesta degli zii, Pat Kenzie e Angie Gennaro iniziano a indagare, scoprono che la madre di Amanda, tossicodipendente e corriere della droga a tempo perso, è implicata in un giro alquanto pericoloso. E che per alcuni dei suoi amici, la vita di un bambino vale meno di una lattina di birra. Mentre Amanda rischia di essere risucchiata in un nulla senza ritorno, i due investigatori si trovano invischiati nel marcio di un'indagine dai contorni incerti che li costringerà ad affrontare il loro lato più oscuro".

Ecco: la bellezza del libro è proporzionale alla banalità del titolo proposto dal traduttore. L'originale Gone, baby, gone (titolo mantenuto, per fortuna, nell'adattamento cinematografico) è una perla di sintesi ed efficacia. E con questo, ho esaurito le note negative.

Gli ingredienti necessari ci sono tutti: un thriller d'azione perfetto nella costruzione e in ogni minimo dettaglio. Atmosfere oscure che sanno trasmettere disagio al lettore, dialoghi perfetti, personaggi credibili, e uno tra i finali più spiazzanti che io ricordi, al di là degli ovvi colpi di scena, ribaltamenti di situazioni, buoni che si scoprono cattivi eccetera eccetera.

Si racconta, senza mai perdersi in banalità, di bambini scomparsi o maltrattati, di adulti tormentati, di poliziotti ambigui che però (spoiler) fanno in modo di farsi volere bene per lunga parte del romanzo. Molte le sottotrame, tutte valide e funzionali all'impianto d'insieme. Belle le scene d'azione e le sparatorie, che quando ci vogliono ci vogliono ma non vengono mai piazzate come scene ad effetto (tipo la classica scopata che bene o male finisce con l'infilarsi dappertutto).
A tal proposito, uno dei punti di forza è l'evoluzione della relazione d'amore tra i due protagonisti: coinvolgente e per nulla banale.
Da annali il capitolo 25 e, perchè no, anche una delle scene iniziali al pub (se avete visto il film di cui si parlava poco più su, sapete che tipo di localaccio potete immaginarvi).
Dulcis in fundo, è un tascabile ultraeconomico che con un po' di pazienza e fortuna si trova al centro commerciale o in qualche libreria reminders al costo di un paio di caffè.

mercoledì 5 maggio 2010

SIX SHOTS, di Alfredo Mogavero, Edizioni XII


Noi uomini siamo una razza malvagia, e quindi trovare il brutto alletta e diletta più che celebrare il bello.
Forse per questo parlare bene di un libro riesce più difficile che stroncarne uno.

Il punto è Six Shots è un bel libro, ma bello davvero: vediamo quindi di aggirare le difficoltà di cui sopra partendo da lontano.

Alfredo Mogavero è un giovane autore attivo da anni nel panorama undergorund. Il ragazzo ha il merito di non avere bussato alla porta del primo EAP per pagarsi il suo bel libretto, come fanno tante Grimildi esordienti ansiose di specchiarsi nel proprio talento, finendo poi con l'intasare il box del babbo con le copie del proprio capolavoro (perchè i libri, inutile dirlo, dovrebbero stare nelle librerie, e non nel box del babbo).
E scartando la via più facile per la pubblicazione, ha preferito spaccarsi il culo scegliendo di crescere come scrittore, maturando, confrontandosi e mettendosi in gioco, sudandosi una meritata credibilità nei più credibili (e spietatamente impegnativi) laboratori di scrittura on-line, macellando e facendosi macellare.

Il risultato è questa sua pubblicazione d'esordio, di cui va dato merito alle sempre coraggiose e ottimamente curate nella forma Edizioni XII.

Dal wild west al weird west il passo è breve.
"Storie di vecchi pistoleri, ubriaconi e mostri..." promettono le prime due righe in quarta di copertina. E i racconti all'interno del libro mantengono la promessa.

Racconti, sì.
Una bella raccolta di racconti, forma espressiva perlopiù bistrattata da parecchi editori, ma che negli ultimi mesi (un titolo su tutti, Malarazza di Samuel Marolla, Epix Mondadori) ha saputo regalare davvero tante soddisfazioni ai lettori appassionati.

Del resto, quante volte una sveltina giovanile con una sconosciuta si rivela a conti fatti più appagante di un matromonio lungo una vita?
Il guaio è che ce ne si accorge da morti o quasi.
Quindi, va bene Twilight, va bene l'ultimo di Stephen King, anche se è la lista della spesa o una riedizione aggiornata di un successo di venticinque anni fa, va bene l'ultimo blockbuster cartaceo di successo che deve essere regalato a Natale, ma, gente, occhio a non perdere cose che davvero meritano di essere lette, che poi si muore e ci si pente.

Six shots: echi del cow-boy Pantera di Valerio Evangelisti, certo (forse anche perchè la colonna sonora che mi suonava in testa leggendo era Suicide note pt. 1, proprio dei Pantera, shakerata con altri brani dei Dawn, ma sempre di Phil Anselmo si tratta). Echi di certe atmosfere di Joe Lansdale. E anche echi di un banjo suonato dal buon vecchio Roland di Gilead, perchè no.

In fondo il deserto è vasto e c'è posto per tutti.
Anche per chi non ti aspetti e sopraggiunge strisciando.

Ma se gli echi di cui sopra sono tanti e tutti gradevoli, la voce che in cima a un canyon urla forte e decisa, con padronanza e personalità invidiabili, lungo duecento pagine di polvere e tequila, è quella dell'autore. Non ci sono cadute di tono, nè tentativi di voler a tutti i costi mostrare la propria bravura stupendoci con effetti speciali.
Si tratta solo di saper mettere una parola dopo l'altra, sbattendosene il cazzo di ciò che è politicamente corretto e cosa no, e l'autore l'ha saputo fare, in barba alle convenzioni e agli standard del genere.
In fondo anche a Tarantino e Rodriguez è andata bene.
E guarda un po', anche loro si sono divertiti a bazzicare tra tette, cactus e polvere...

In due parole, un libro da leggere.
E che, sebbene facilmente ordinabile con un clic, merita un prolungato e tenace spaccamento di palle al vostro libraio di fiducia affinchè ve lo procuri.

Solo così, alla lunga, si espanderà il contagio di certe gradevoli malattie.

martedì 4 maggio 2010

SCOPAMI, di Virginie Despentes, Einaudi



BAISE MOI è il titolo originale di un romanzo

BAISE-MOI (Baciami) è un romanzo breve (si legge in un’oretta) uscito nel 1994. L'autrice è la francese Virginie Despentes, e forse per questo chez nous Einaudi ha proposto il libro con un titolo che adotta un fine e ricercato francesismo: SCOPAMI.

Riassunto: Thelma & Louise in salsa pulp. Fine del riassunto.

Niente paura: vado ad approfondire il discorso, non fosse che per rispetto verso tutti quelli che hanno googlato il titolo del romanzo in cerca magari di una sega veloce e per sbaglio sono finiti qui. Due ragazzacce della banlieu si riciclano quasi per caso Natural Born Killers in sottoveste (quando va bene), e quasi con indolenza iniziano a distribuire on the road sesso e morte, e a volte non necessariamente in quest’ordine. Fine dell'approfondimento.

Intendiamoci: il libro è bello, ma non così tanto da non lasciarci prendere in giro almeno un pochetto. Certo meraviglioso noir d’oltralpe è ben altro.

La mia passione del momento è Dominique Manotti (il sentiero della speranza). Come non adorare quel suo vizioso commissario gay, che riesce a parare il culo i suoi ispettori stupratori e risultare persino simpatico?

Chapeau.

E poi autori come Izzo, Manchette, Vargas; pagine nere come la notte e fredde come il ghiaccio, essenziali come una pallottola in testa o una coltellata al cuore; pagine che narrano vicende di vincitori e vinti, poliziotti e malviventi, santi e peccatori, e anche questa volta non necessariamente in quest’ordine.

Certi autori francesi sanno scrivere cose che regalano veri brividi.

Cose oscure che addirittura si spingono oltre le scelte tecniche e gli schemi del CT dei bleus, Raymond Domenech.


E, francamente, la Despentes non è tra essi, ma nemmeno ha l'ambizione di esserci.

Quella che ci racconta (o forse sarebbe meglio dire che ci mostra, come in un film, e appunto di un film tra poco si andrà a parlare) è una Francia sghemba e schizofrenica, che al lettore rimane impressa: dallo squallore decadente della periferia parigina alle spiagge sciccose di Biarritz, passando per una provincia opulenta e godereccia pregna di club privè e maschi in cerca di facili avventure. Un entroterra materiale e culturale che mi ha ricordato non poco il nordest italico rappresentato nei romanzi del bravissimo Massimo Carlotto, tanto per restare in tema.

Con questo, tengo a ripeterlo, non voglio dire che BAISE-MOI sia un brutto libro. Anzi: mi è piacuto e, ai tempi, anche parecchio. Fu una lettura gradevole. Non fondamentale, ma gradevole. Una volta mi è anche servito ad attaccare bottone con una ragazza in autobus.

E’ un libro dove non c’è amore ma tanto sesso, e nemmeno consumato con passione: solo e soltanto dirty sex, per usare un vocabolo che fa tanto Rolling Stones o Motorhead. Una storia che puzza di whisky e sigarette, più che profumare di rose e avere il gusto nocciola dei Baci Perugina. Insomma: più porno che erotismo – e la differenza tra i due concetti l’ha ben spiegata il maestro Tinto Brass in un celebre aforisma.

Un romanzo molto ‘cinematografico’: e infatti ci hanno fatto un film, definito da qualche parte “poema punk, anarchico e femminsita”. Wikipedia ne parla come di un “hard-noir che aveva la velleità di raccontare l'odissea tragica di due vite in cerca di riscatto, fabbricando un visionario e impietoso ritratto della sindrome del cliente sciovinista”. Alla regia la stessa Virginie Despentes. Co-regista, per fugare ogni dubbio sui territori in cui ci si muove, Coraline Trinh Thi. Un’elfa silvana? Una maga delle incantate Foreste di Loren? No, un’ex pornostar. E a prestare il volto (e non solo quello…) alle protagoniste Manu e Nadine, due personaggi che al di là di tutto ti restano dentro, con il loro fardello ricco di contraddizioni, di sofferenza, immoralità, crudeltà e perchè no dolcezza, un po’ come i fratellini Clooney e Tarantino in DAL TRAMONTO ALL’ALBA, due stelle del cinema a luci rosse: Rafaela Anderson e Karen Bach.

E’ una pellicola molto fedele al romanzo. La ricordo, in particolare, per due cose: la prima è una delle scene di stupro più crude e disturbanti che mi sia capitato di vedere. Niente a che vedere con la macelleria amazzonica di un CANNIBAL HOLOCAUST, d'accordo. Non ci sono grida, lacrime, gemiti di dolore: c’è silenzio, indifferenza, stanca rassegnazione. Un autentico pugno nello stomaco. Una scena che non può che rimandare a un’altra sequenza di violenza carnale, quella di un’altra pellicola francese, IRREVERSIBLE, in cui la nostra Monica Bellucci (ex modella in tanti film accreditata come ‘attrice’ che, ahimè, nemmeno un maestro come Tornatore è riuscito a dotare di espressività e mimica facciale) viene abusata “alla greca” in uno squallido e puzzolente sottopassaggio. Dieci e passa minuti di camera fissa sul misfatto e, questa volta, di dolore gridato e disarmante ‘bassezza’ ostentata nella sua brutalità, che oggettivamente non lascia indifferenti. A certe cose non è possibile assuefarsi. E oltretutto nello stesso film c’è una scena di violenza che sotterra le caramelle pop di pellicole come SAW o HOSTEL: il massacro del “Tenia” nel club BDSM.

Quest'ultimo mi riporta alla seconda cosa per cui, a volte ripenso, con un ghigno soddisfatto alla pellicola (al romanzo) della Despentes: i due o tre minuti di mattataoio nel Club Privè. Da vedere. Ma soprattuto da non prendere troppo sul serio, come se fosse un servizio del telegiornale o un’ANSA da Gaza o da Kinshasa (quando tra una tetta e l’altra avanza tempo al TG per darne conto a nossignori).

Solo così capiremo quanto possa aiutare l'avere avuto il Divin Marchese tra i propri principali autori (oltre che il Petomane a riempire i teatri nella belle èpoque)… diavolacci di francesi!!!

Vado a concludere con una piccola nota di colore, rossa come il sangue ma anche come l’amore: Karen Bach si è suicidata a Parigi all’età di 23 anni, nel 2005. Un anno prima, ma non credo le cose siano collegate, la collega Rafaela, che aveva deciso di cambiare vita, pubblicò un romanzo intitolato HARD, una fredda e didascalica autobiografia. Non è sicuramente tra i dieci libri da salvare dal diluvio, ma, azzardo un paragone fantasy, sta a 100 COLPI DI SPAZZOLA come Aragorn sta al Reggente di Gondor…

N.B. Se qualcuno è rimasto qualche riga più su, al Petomane, c’è un film anche su tale figura – storicamrente esistita, è bene ricordarlo. Magistralmente interpretato dal grande Ugo Tognazzi, che al contrario della Bellucci è riuscito a dotare di espressività e mimica facciale anche qualcosa un po’ più in basso della faccia…